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Tecnica

Oli lubrificanti: dove va la ricerca

Si lavora sulla fluidità, per ridurre la resistenza e dunque i consumi di gasolio, ma anche sulla tolleranza ai nuovi combustibili. Senza dimenticare, naturalmente, le basi biodegradabili

di Ottavio Repetti
novembre 2023 | Back

L'olio, in una moderna macchina agricola, è uno degli elementi più importanti per assicurarne la durata e il buon funzionamento e, al tempo stesso, uno dei componenti che vanno a usura più rapidamente. Sebbene la sua durata sia notevolmente aumentata grazie alle nuove formulazioni, va cambiato almeno una volta all’anno, ma si arriva a due o tre cambi per i mezzi impiegati con più frequenza. Non è azzardato dire, allora, che nella sua vita lavorativa un trattore di ultima generazione subisce dai 20 ai 30 cambi d’olio: un numero che ha significative implicazioni pratiche, economiche e anche ambientali. Per esempio, un trattore di taglia media con una vita utile di 10 mila ore usa dai 350 ai 500 litri d’olio motore (a seconda dell’intervallo di manutenzione), per una spesa totale (considerando un olio di prezzo intermedio) che va dai 3.000 ai 4.500 euro. Abbiamo precisato, poco sopra, che il conto è fatto sull’olio motore, in quanto su una macchina agricola se ne impiegano di vario tipo. In genere, almeno tre: uno per il motore, uno per la trasmissione e un terzo per il circuito idraulico, qualora sia separato dal cambio. A essi si aggiunge, per convenzione, il fluido dell’impianto di frenatura. Vista la sua rilevanza anche economica, dedichiamo questo approfondimento agli oli per macchine agricole, per conoscerne meglio la natura, le componenti e le ultime tendenze. Che vanno, non a sorpresa, verso la ricerca di una maggior sostenibilità ambientale.

Com’è fatto l’olio. Indipendentemente dalla sua destinazione, un moderno olio meccanico è formato da tre componenti: base, additivi e polimeri, con la prima a rappresentare, da sola, i tre quarti del volume totale, mentre gli additivi costituiscono circa il 15% del composto e i polimeri non vanno oltre il 10%, in media. Questi ultimi servono in genere a migliorare le performance dell’olio – in particolare dell’olio motore – quando esso sia prodotto con basi di qualità media o medio-bassa e possono rappresentare un punto di debolezza dell’olio stesso, in quanto generalmente si degradano in tempi inferiori rispetto alla base che dovrebbero migliorare.

La base e i suoi gruppi. Come componente principale dell’olio, la base gioca un ruolo fondamentale nel determinarne la qualità. Una cattiva base, per quanto corretta e additivata, non produrrà mai un olio con prestazioni elevate e soprattutto inalterate nel tempo. Esistono tre tipi di base: minerale, sintetica o rigenerata. La prima si ottiene dal petrolio, a seguito di un processo di raffinazione che può essere più o meno approfondito. Ne derivano basi di diversa purezza, che vanno a comporre i vari gruppi in cui si suddivide questa materia prima. Le basi sintetiche derivano da etiliene, esteri o PAO, spesso in combinazione. Per esempio, unendo le poli-alfa olefine con un olio di Gruppo 3 oppure con un estere. Le basi rigenerate, per finire, derivano dal recupero degli oli esausti, un settore che vede il nostro Paese ai vertici mondiali per efficienza. Il sistema dei consorzi di raccolta funziona alla grande, come spieghiamo a parte, recuperando il 99% dell’olio in circolazione. Il prodotto rigenerato che ne deriva non è tuttavia sempre uguale e appartiene generalmente al primo gruppo di basi. Con successive raffinazioni può essere portato al Gruppo 2 e usato quindi anche per applicazioni gravose come l’impiego nei motori. Più comune, tuttavia, utilizzare queste basi per oli idraulici che non necessitano di grandi qualità e tenuta nel tempo.

Additivi e polimeri. Gli additivi sono una componente necessaria per particolari oli – per esempio, quelli del motore – in quanto ne migliorano determinate caratteristiche ritenute fondamentali, come la resistenza alle alte temperature o a determinate sostanze con cui l’olio verrà a contatto, a cominciare dal gasolio. Potrà sorprendere chi non conosce la materia, infatti, ma un olio esausto contiene fino al 10% di gasolio, raccolto durante la sua funzione di lubrificazione del cilindro. A seconda della composizione del gasolio, come vedremo in seguito, variano la necessità di aggiungere additivi e la loro natura. Abbiamo, infine, i polimeri, che compensano le carenze delle basi. Entra qui in gioco un elemento fondamentale come l’indice di viscosità, che spiega come si comporta l’olio al variare della temperatura. Quando questo indice è inferiore a 100, non è assicurata una buona lubrificazione alle alte temperature (una base sintetica, per avere un termine di riferimento, arriva a 160). Pertanto si aggiungono polimeri che correggano questo difetto. I polimeri, tuttavia, sotto l’azione meccanica, per esempio nel movimento degli ingranaggi, si deteriorano in tempi più rapidi rispetto alla base. Pertanto si rischia di avere, dopo un centinaio di ore di lavoro, un olio con prestazioni significativamente diverse da quelle indicate in etichetta, con conseguente usura dei componenti meccanici. La funzione principale dell’olio è infatti quella di mantenere un film protettivo sulle parti sottoposte ad attrito, evitando usure e danneggiamenti. Quando l’olio si degrada, questo film diventa troppo sottile, per cui le parti meccaniche entrano in contatto e iniziano a usurarsi. Il fenomeno è condizionato anche dalla temperatura di esercizio: più è alta, più l’olio diventa fluido e più la pellicola protettiva si assottiglia. Gli oli multigrado sono nati appunto per mantenere prestazioni abbastanza uniformi al variare della temperatura, ma perché ciò avvenga, è necessario partire da una buona base, sostenendo costi superiori. La fluidità dell’olio sta diventando d’altra parte un vantaggio, in certi contesti: un olio fluido scorre meglio, offre meno resistenza ai movimenti meccanici e dunque assorbe meno potenza.

Dove va la ricerca. Nuovi combustibili, trasmissioni sempre più efficienti, aumento di richiesta idraulica: queste tendenze nel settore delle macchine agricole riguardano da vicino anche la produzione degli oli. I combustibili, soprattutto, si stanno profondamente modificando. Oggi il gasolio contiene un 7% standard di biodiesel, ovvero di carburante prodotto da fonti vegetali. Esistono però varie formulazioni, con contenuti di biodiesel fino al 20%. Vi è poi la complessa questione degli HVO, sigla che sta per Hydrotreated Vegetable Oil (in italiano, oli vegetali idrotrattati). Si tratta di un nuovo tipo di carburante, ottenuto dalla raffinazione di idrocarburi paraffinici, provenienti da fonti vegetali quali oli alimentari esausti, sego e oli prodotti da colture ad alto rendimento e bassa occupazione di suolo. La natura del carburante, come è facile immaginare, influenza anche le prestazioni dell’olio. In parte perché il gasolio è usato, nel motore Diesel, per lubrificare la parte alta del cilindro e dunque una diversa composizione del combustibile può modificare il livello di questa lubrificazione. Secondariamente, una frazione non trascurabile di gasolio finisce nell’olio. Siccome il biodiesel lascia la camera di combustione più umida, una parte maggiore di esso sarà inglobata nell’olio, con il rischio di ridurne più in fretta le prestazioni. Per questo motivo, i produttori di olio stanno lavorando a miscele che possano resistere meglio all’acidificazione e alla contaminazione da biodiesel. Anche in ambito Api e Acea – rispettivamente American Petroleum Institute e Association des Constructeurs Européens d’Automobiles, due enti che si occupano di ricerca sugli oli – si stanno realizzando test di compatibilità tra gli attuali oli e combustibili con tassi di biodiesel sempre maggiori. Lo stesso vale, ovviamente, per i carburanti a base di HVO.

Il fattore fluidità. Un altro importante motore di innovazione è il risparmio energetico. Che è strettamente connesso alla sostenibilità ambientale, poiché meno gasolio si usa e meno emissioni si producono. A questo proposito, i progettisti di motori studiano soluzioni per utilizzare oli sempre più fluidi. La ragione è fisica: un olio più fluido offre meno resistenza al movimento dell’albero motore e all’azione dei raschiaolio, riducendo la dissipazione di potenza e conseguentemente i consumi. Inoltre, la fluidità è direttamente connessa alla capacità di inglobare aria e di rilasciarla una volta inglobata. La presenza di aria dispersa crea problemi all’olio in quanto l’aria porta con sé acqua, che alle alte temperature raggiunte dall’olio nei motori o in certe applicazioni idrauliche "esplode" causando depositi carboniosi. Un olio fluido, pertanto, cattura meno aria e la rilascia più facilmente. Per questi motivi in alcuni nuovi motori consigliano di usare, in luogo del classico SAE 10W40, un SAE 10W30 e qualche costruttore, vedi Man, si spinge fino ai SAE 5W20 (per l’autotrazione, al momento). Prodotti da impiegare, tuttavia, soltanto in motori di nuova generazione, progettati per lavorare in modo efficiente con questi valori di fluidità. Allo stesso modo si sta facendo ricerca per trovare additivi che riducano la formazione di schiume e l’inglobamento di aria.

Trasmissione e idraulica. Le moderne trasmissioni, sia quelle powershift sia – e soprattutto – a variazione continua richiedono oli specifici, solitamente SAE 10W30 appartenenti alla categoria UTTO (Universal Tractor Transmission OIL). Alcuni costruttori si stanno tuttavia orientando su prodotti con prestazioni superiori, come quelli di categoria STOU (Super Tractor Oil Universal): oli adatti sì alla trasmissione, ma con alcune qualità proprie dell’olio motore in materia di detergenza e capacità di dispersione dei contaminanti. Una scelta nel nome della qualità e dell’efficienza, ma che ha anche chiari risvolti di marketing. Chiudiamo con un accenno agli oli idraulici. Fra le tre classi di olio presenti in una macchina agricola, sono quelli che richiedono le minori specifiche in termini di tenuta nel tempo e viscosità, ma d’altra parte sono anche quelli che, per svolgere il loro compito, escono dalla trattrice. Ciò comporta che con maggior facilità si possono disperdere nell’ambiente e, in secondo luogo, inglobare aria o umidità, creando i residui carboniosi citati in precedenza. Per evitare gravi contaminazioni del terreno, possibili sia in caso di rotture di tubi idraulici sia nel normale innesto e disinnesto delle prese, ci si sta sempre più orientando sugli oli idraulici biodegradabili, che rappresentano, al momento, uno dei più prolifici filoni di ricerca in materia di olio agricolo.

L’olio biodegradabile. La biodegradabilità dell’olio è cosa diversa dal suo impatto ambientale: quest’ultimo si misura con l’impronta carbonica, ovvero con il calcolo di quanta CO2 si emette nel processo di produzione, utilizzo e smaltimento (o riciclo) dell’olio e di tutti i suoi componenti: basi, polimeri, additivi, confezioni. La biodegradabilità indica invece il tempo impiegato da un olio disperso nell’ambiente per degradarsi e rappresenta una sorta di assicurazione contro l’inquinamento provocato, appunto, da una dispersione accidentale. Va da sé che questa caratteristica è molto più importante per i fluidi dell’impianto idraulico che per gli oli di motore e trasmissione, per i quali l’impiego di basi vegetali o bio è, al momento, marginale. Vediamo allora come si ottiene un olio biodegradabile. Le strade sono due: usare una base di origine vegetale, proveniente dunque da coltivazioni come la colza o il ricino, oppure sintetica, come un estere o, più raramente, una paraffina. In ogni caso è fondamentale che la base sia, nel caso si ritrovi in natura, aggredibile da parte dei batteri e dunque, appunto, degradabile. A differenziare le prestazioni, in un olio bio, è la saturazione della base: più è insatura, più ha tendenza a ossidarsi, ovvero a legarsi con atomi di ossigeno, perdendo le proprie caratteristiche. Un processo favorito dalle alte temperature (70° e oltre). L’ossidazione comporta acidificazione, con un aumento del TAN (Total Acid Number, ovvero numero di acidità) e necessità di manutenzioni ravvicinate. Le basi biodegradabili sono inoltre più igroscopiche, ovvero tendono a trattenere di più l’acqua in emulsione. Acidità, umidità e alte temperature aumentano il rischio di depositi carboniosi che, a lungo andare, possono danneggiare i componenti dell’impianto. Occorrono quindi materie prime di alta qualità e additivi che aumentino le prestazioni del prodotto e ciò, unito al processo di produzione, fa aumentare i costi degli oli biodegradabili, che di conseguenza mantengono un prezzo superiore rispetto a quelli a base fossile. Non c’è tuttavia dubbio che, almeno per l’olio idraulico, la biodegradabilità sia una strada quasi obbligata. Oltre agli evidenti benefici in termini ambientali, infatti, va tenuta in conto sia l’attenzione dell’opinione pubblica, sia la tendenza normativa: già alcuni disciplinari di filiere biologiche prevedono l’impiego di oli biodegradabili laddove possibile e non è detto che questa strada non sia seguita, presto o tardi anche per i prodotti agricoli convenzionali.


Le cinque basi dell’olio

Sono, in tutto, cinque: le basi del Gruppo 1 sono quelle sottoposte alla sola raffinazione e presentano un alto coefficiente di composti saturi e un livello di zolfo talvolta superiore ai limiti massimi consentiti. Sottoposte a un trattamento a base di idrogeno, divengono più sature e perdono zolfo, passando così al Gruppo 2. Un successivo idro-trattamento con idrogeno in pressione permette il salto al Gruppo 3, che generalmente contiene basi sintetiche. Queste ultime sono le uniche componenti del gruppo 4, che raggruppa le poli-alfa-olefine (PAO): basi totalmente sintetiche, generalmente ottenute a partire da molecole di etilene opportunamente trattate. Il quinto e ultimo gruppo è infine un contenitore per tutte le basi non riconducibili ai gruppi precedenti. Vi troviamo quindi basi siliconiche, glicoliche, prodotte da esteri e via elencando.


Recupero e rigenerazione: Italia  virtuosa

Quando si parla di raccolta differenziata e riciclaggio, l’Italia è un paese da imitare. Vale anche nel campo degli oli meccanici, dal momento che nel nostro Paese è raccolto il 46% dell’olio immesso sul mercato, contro una media europea del 41%. Ancor più ampio il divario se parliamo di rigenerazione: il 99% dell’olio raccolto è trasformato in nuove basi, mentre in Europa non si arriva al 50%. Al centro di tutto il processo c’è il Conou, Consorzio Obbligatorio degli Oli Usati, nato nel 1983 come Coou. Un esempio di struttura pubblico-privata che, stando a quanto dicono tutte le parti in causa, funziona decisamente bene, grazie al fatto di operare gratuitamente. Le spese della raccolta sono infatti coperte dalla filiera in fase di produzione: conferire l’olio al Conou non costa invece nulla. La rigenerazione dell’olio passa attraverso l’eliminazione dell’acqua e dei residui in esso contenuti (fino al 25% tra bitume e gasolio). Un processo al termine del quale le basi rigenerate possono essere impiegate in diverse applicazioni.

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