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Tecnica

I mini impianti di biogas

Nelle aziende zootecniche di dimensioni medio-piccole, la digestione anaerobica offre interessanti opportunità, in buona parte ancora non sfruttate. Le tecnologie oggi disponibili rendono economicamente conveniente l’impianto di conversione energetica, contribuendo a ridurre la dipendenza dalle fonti fossili

di Jacopo Bacenetti
luglio - agosto - settembre 2022 | Back

Oltre a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili, la produzione di energia da fonti rinnovabili è sempre stata considerata una soluzione in grado di diversificare il reddito degli operatori. Alla luce dei recenti sconvolgimenti geopolitici e delle conseguenti impennate dei prezzi del gas e dei prodotti petroliferi, un ulteriore sforzo verso lo sfruttamento delle fonti rinnovabili è probabilmente la miglior via d’uscita per continuare a soddisfare la domanda di energia, senza impattare negativamente sull’ambiente.

Soprattutto nel Nord Italia, la digestione anaerobica di biomasse fermentescibili finalizzata alla produzione di biogas da sfruttare per la generazione di elettricità o biometano è sicuramente la filiera agro-energetica di maggior successo. L’ampia disponibilità di biomassa (ad esempio i reflui zootecnici), unita alla possibilità di produrne altra appositamente per la digestione (insilati di cereali) e l’attivazione di politiche di incentivazione hanno favorito nel recente passato la diffusione di impianti di biogas agricolo. Peraltro, gli incentivi inizialmente previsti sono stati successivamente rimodulati, e ora sono concessi in funzione della taglia dell’impianto e della tipologia di biomassa sfruttata. In tal modo, sono favoriti impianti di potenza inferiore ai 300 kW ed alimentati con biomasse di risulta e/o sottoprodotti. Recentemente il decreto Milleproroghe ha esteso al 2022 gli incentivi agli impianti biogas inferiori ai 300 kW, ossia quelli più diffusi nelle aziende con allevamenti zootecnici.

Nonostante questo cambio di paradigma, buona parte degli impianti realizzati anche dopo la revisione delle tariffe prevedono comunque l’alimentazione dei digestori con biomasse dedicate (spesso il silomais), seppur in codigestione con reflui e/o altri sottoprodotti agricoli ed agro-industriali.

I mini impianti

La presenza di mini-impianti di biogas (indicativamente di potenza inferiore a 50-100 kW), rigorosamente alimentati solo con reflui e sottoprodotti è ancora molto limitata. Infatti, se da un lato l’impiego di matrici di risulta riduce i costi di alimentazione (soprattutto nel caso di brevi distanze di trasporto), dall’altro occorre considerare che queste biomasse (e i reflui in particolare) hanno produzioni specifiche di biogas particolarmente modeste (ad esempio per il liquame suino solo 8-10 m3/t di biogas), richiedendo quindi la costruzione di digestori di medio-grandi dimensioni, a fronte di produttività limitate.

Ad oggi, comunque, una quota ancora piuttosto inesplorata del mercato del biogas è rappresentata dalle potenzialità di aziende zootecniche di dimensioni medio-piccole (a partire da 70-100 capi di bovini adulti). Si tratta di una dimensione aziendale ancora molto diffusa nell'Italia centro-meridionale, non considerata dai principali produttori di impianti di biogas, per le loro limitate produzioni di materia prima. Questo disallineamento, tra la biomassa disponibile in azienda e quella richiesta per un efficiente sfruttamento dell’impianto, ha precluso alle piccole aziende agro-zootecniche la possibilità di investire nel settore delle agro-energie.

Di recente sono state però sviluppate soluzioni di impianti di mini-biogas, che possono adattarsi al meglio alle aziende agricole di dimensioni limitate, con una riduzione dei costi di approvvigionamento dell’energia, valorizzando al contempo biomasse locali, la cui gestione solitamente rappresenta un costo.

Le soluzioni disponibili

In generale, gli impianti di mini-biogas si adattano bene alle dimensioni dell’allevamento, risultando molto efficaci anche in piccoli contesti: nel caso degli impianti di minor dimensione, si può partire anche solo da 40-50 vacche oppure mille suini, ma sono disponibili anche soluzioni per lo sfruttamento dei reflui derivanti da bufale, conigli e avicoli.

Inoltre, pur se pensati per essere alimentati principalmente con reflui zootecnici, è possibile sfruttare vantaggiosamente questi impianti anche per altre tipologie di sottoprodotti, come il  siero di latte, i residui della vinificazione e della lavorazione della barbabietola da zucchero, le trebbie di birra, ecc.

In generale, gli impianti di questo tipo sono più semplici rispetto a quelli da qualche centinaio di kW di potenza fino a 1 MW; ciò è dovuto sia all’esigenza di ridurre i costi, ma anche perché solitamente l’alimentazione avviene con biomasse con un basso tenore in sostanza secca, per cui gli apparati di alimentazione e miscelazione dei digestori sono piuttosto semplici. Anche la superficie occupata è modesta: ad esempio, gli impianti proposti da Micro Biogas Italia (Bioeletric), con potenza compresa tra 11 a 44 kW richiedono una superficie tra 100 e 250 m2.

Pur con alcune differenze proposte dai vari produttori, in generale le parti principali dell’impianto sonoil digestore e un locale tecnico. Il digestore: è di solito una vasca alta 2,5 m, (in pannelli prefabbricati in acciaio inox coibentati e impermeabilizzati, sormontata da una cupola gasometrica a doppia o tripla membrana per l’accumulo del biogas prodotto) e corredata dal miscelatore e da un impianto di riscaldamento, per mantenere la più corretta temperatura di processo anche nei mesi più freddi. Nel locale tecnico (spesso un semplice container) dove sono installate le componenti elettriche; il cogeneratore; i sistemi di carico e scarico del digestore; i dispositivi per il trattamento del biogas (filtri, circuito per la desolforazione, deumidificatore); uno o più scambiatori di calore per il recupero del calore dai fumi di scarico del cogeneratore; la caldaia di supporto e l’analizzatore della qualità del biogas.

Il locale di servizio è di solito consegnato “chiavi in mano”, dovendo quindi essere solo collegato al digestore. Quest’ultimo può essere collocato su un semplice basamento di cemento: l’installazione e l’allestimento dell’impianto richiedono solamente 5-10 giorni, mentre la produzione di biogas può iniziare dopo una fase di start-up di 4-8 settimane.

I risultati

L’investimento per l’impianto varia in funzione della sua dimensione: rispetto a quelli di maggiori dimensioni, logicamente il costo specifico per unità di potenza è sensibilmente superiore, anche se la spesa complessiva è inferiore. Nella fase produttiva, i principali costi riguardano il monitoraggio del processo, eventuali piccole manutenzioni al cogeneratore e ai diversi dispositivi per l’alimentazione e la miscelazione. Generalmente i costruttori offrono il servizio di manutenzione ad un costo di 0,04-0,05 euro/kWh di energia prodotta. Peraltro, il reperimento delle matrici costituisce un costo molto spesso trascurabile, essendo tutte biomasse di risulta.

I ricavi dipendono ovviamente dalla quantità di energia elettrica che può essere sfruttata per soddisfare le esigenze aziendali, oppure immessa nella rete elettrica nazionale e valorizzata secondo i meccanismi di incentivazione, che attualmente riconoscono 0,233 euro/kWh. L’energia termica ricavata dal raffreddamento del motore e dal recupero del calore dei fumi di scarico è in parte utilizzata per regolare la temperatura dei digestori.

Il surplus termico viene generalmente dissipato, anche se potrebbe essere convenientemente valorizzato per soddisfare altre esigenze (riscaldamento di locali, essiccazione di foraggi).

La valorizzazione del calore è generalmente limitata, a causa della stagionalità opposta tra il momento in cui il surplus termico è maggiore (l’estate) e il periodo in cui si verificano elevati fabbisogni (il periodo invernale).

Un esempio pratico

Per un impianto da 35 kW, alimentato a reflui zootecnici di origine aziendale, considerando: un investimento iniziale di 265.000 euro e ulteriori costi di installazione pari al 10% del costo base; una tariffa per la manutenzione pari a 0,04 euro/kWh; un autoconsumo elettrico pari all’11%; 500 euro/anno di imprevisti non inclusi nel servizio di assistenza; la valorizzazione dell’elettricità alla tariffa incentivante; un tasso di attualizzazione del 4% si ottiene un VAN (Valore Attuale Netto) di circa 350.000 euro, con un tempo di ritorno di poco superiore ai 7 anni. 

I risultati sono quindi oltremodo interessanti, soprattutto considerando che si tratta di impianti che richiedono pochissima manodopera da parte dell’allevatore e che sono alimentati unicamente con biomasse di risulta, la cui gestione tradizionale comporterebbe, oltreché un costo, anche un impatto non trascurabile sull’ambiente a causa delle emissioni di metano, ammoniaca e protossido di azoto che si verificano durante il periodo di stoccaggio.

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