Agricoltura in Nordafrica, tecnologie e cooperazione
Si è svolto nell’ambito di Agrilevante il convegno dedicato ai Paesi della fascia settentrionale del continente africano, che hanno notevoli potenzialità di crescita nel settore primario, ma che necessitano di macchine e sistemi di nuova generazione. Molto promettente la collaborazione con l’industria agromeccanica italiana e con gli organismi che si occupano di assistenza tecnica e formazione professionale
«La manifestazione di Bari può diventare un laboratorio per la cooperazione e le collaborazioni tra i Paesi del Mediterraneo, e le aziende italiane sono le più titolate per questa collaborazione perché hanno nella flessibilità e nell’ampiezza di gamma il loro punto di forza». In questo modo la presidente di FederUnacoma, Mariateresa Maschio, ha aperto i lavori del convegno su “Agricoltura in Nordafrica: caratteristiche, potenzialità e fabbisogni tecnologici” che si è svolto nella seconda giornata di Agrilevante, il 6 ottobre scorso.
A moderare l’incontro era Gianfranco Belgrano, direttore editoriale del mensile Africa e Affari, che proprio per questa occasione ha pubblicato un numero speciale dedicato all’economia e alle opportunità offerte dai Paesi di quest’area: Egitto, Libia, Tunisia, Algeria e Marocco. Per ciascun Paese la pubblicazione riporta una scheda che inquadra la situazione economica e politica, con un focus particolare sul comparto agricolo, con la descrizione della struttura imprenditoriale locale, dei programmi di sviluppo finanziati e delle necessità specifiche in termini di tecnologia e attrezzature.
Tutto il continente, non solo il nord dell’Africa al quale il convegno e la pubblicazione monografica sono dedicati, ha in comune una caratteristica: la grande voglia di novità. Belgrano ha introdotto il tema parlando delle opportunità che quell’area offre proprio alle aziende in grado di offrire soluzioni innovative. Grazie anche all’età media degli abitanti, molto più bassa che in Europa, le nuove tecnologie trovano una buona accoglienza presso le popolazioni locali, che già adesso manifestano una certa familiarità con la digitalizzazione, in settori cruciali come quelli dei pagamenti elettronici e delle telecomunicazioni.
Come mai, allora, in un contesto così ricettivo, l’agricoltura non ha ancora raggiunto un livello di innovazione tecnologica migliore di quello attuale?
Secondo Belgrano ci sono almeno due buone ragioni. La prima è di natura economico-finanziaria, dato che a coltivare i terreni sono il più delle volte piccole imprese familiari o aziende di dimensioni molto contenute. L’altra ragione riguarda le caratteristiche climatiche e la presenza di vasti territori desertici, dove rendere fertili i terreni richiede investimenti consistenti e tecniche complesse, spesso ancora allo stadio sperimentale. Le schede tecniche di Africa e Affari riportano anche informazioni sui principali programmi di sostegno finanziario all’agricoltura avviati sia dai Governi locali che dagli organismi internazionali. Molti di questi interventi sono orientati proprio all’irrigazione di una parte del deserto e alle sperimentazioni delle colture adatte a questi terreni.
Alla base dello sviluppo tecnologico, anche in agricoltura ci sono la ricerca e la formazione. La scarsa conoscenza delle realtà locali da parte di imprenditori e lavoratori, in Europa così come nei Paesi in via di sviluppo, frena la diffusione delle nuove tecnologie o, peggio ancora, vanifica gli investimenti fatti perché le attrezzature più evolute vengono utilizzate senza sfruttare le funzioni che renderebbero più efficace e produttivo il lavoro sui campi.
Proprio di questo, cioè di formazione, si occupa l’Istituto agronomico mediterraneo di Bari, Ciheam (Centre International de Hautes Etudes Agronomiques Méditerranéennes), presente al convegno per dare una sintesi dei programmi realizzati in varie parti del mondo.
«La nostra è un’organizzazione intergovernativa costituita da ministeri dell’Agricoltura di tredici Paesi del Mediterraneo – ha detto Mara Semeraro, consulente tecnico della struttura pugliese – con un segretariato generale a Parigi e quattro istituti agronomici che si trovano, oltre che a Bari, a Chania, Montpellier e Saragozza. La nostra principale missione è la formazione ma da diversi anni siamo impegnati anche nella cooperazione allo sviluppo e nella ricerca applicata alla cooperazione. Oltre che di agricoltura di precisione, valorizzazione di biodiversità e di blue economy, ci occupiamo anche di imprenditoria giovanile. Dal 1962 abbiamo formato oltre 13 mila quadri ministeriali provenienti da più di cento Paesi. Di questi, molti sono diventati poi figure di rilievo, talvolta anche Ministri nei rispettivi Paesi».
Attualmente, nel campus di Bari sono attivi cinque corsi master della durata di due anni e due corsi di alta specializzazione, quelli sull’agricoltura biologica e sugli ecosistemi sostenibili. Gli ex studenti costituiscono un network internazionale che rimane in contatto, dopo aver concluso l’esperienza all’interno del Ciheam, per scambiare esperienze e aggiornamenti tecnici. Questa rete mondiale conta attualmente 10 mila membri provenienti da 57 Paesi.
«In Egitto abbiamo realizzato, grazie anche alla collaborazione di FederUnacoma, il progetto Samsimifa – ha detto Semeraro – per il quale avevamo un budget totale di 10 milioni di euro finanziati dalla Cooperazione italiana. Otto milioni sono stati utilizzati per l’acquisto di macchinari agricoli e gli altri due per l’assistenza tecnica che abbiamo fatto proprio partendo dai bisogni del territorio. Un territorio dove i servizi per la meccanizzazione erano pochi e, quindi, distanti dalle aziende agricole. Gli stessi tecnici erano pochi e non aggiornati. Abbiamo coinvolto le 512 cooperative agricole presenti sul territorio che ne abbiamo selezionato alcune alle quali abbiamo fornito la formazione necessaria. Così queste sono diventate stazioni di meccanizzazione. Abbiamo generato una nuova forma di gestione di servizi di assistenza tecnica e siamo riusciti a creare una rete tra le istituzioni pubbliche e il privato».
Ma quando si parla di meccanizzazione specializzata, a cosa ci si riferisce esattamente per un’area i cui confini sono da una parte il Mediterraneo e dall’altra il deserto?
Lo ha spiegato Davide Gnesini, responsabile del servizio tecnico di FederUnacoma. «Dobbiamo partire dalle colture principali e da qui ricavare una filiera che parte dalle trattrici per proseguire con la preparazione del terreno, la semina, l’irrigazione, la protezione delle piante e, infine, la raccolta e la movimentazione. E tra le colture già presenti vediamo subito l’ulivo seguito da agrumi e cereali. Ci sono poi il cotone, soprattutto in Egitto, lo zucchero, sia da canna che da barbabietola, le patate e così via. Ma ci sono colture, con le quali non abbiamo molta familiarità, che pongono delle vere sfide in termini di meccanizzazione. Per esempio, la raccolta dei datteri avviene a mano, con operatori che salgono in cima agli alberi. Oppure le piante di avocado e di mango, che si avvicinano ai nostri comuni alberi di mele, o ancora gli ananas, che pongono le maggiori sfide in termini di meccanizzazione».
Gnesini ha mostrato le immagini di alcune trattrici da frutteto e vigneto strette, compatte, di dimensioni adeguate ad alcune realtà specifiche tra le quali, appunto, uliveti e frutteti. Esistono in Italia macchine che lavorano solo le strisce di terreno su cui viene impiantata la coltura lasciando indisturbato il terreno vicino. Queste possono contribuire a realizzare i principi dell’agricoltura conservativa, allontanando così il rischio di desertificazione.
Altra tendenza che ben si inserisce nell’area nordafricana, insieme all’ottimizzazione delle risorse idriche, è la riduzione dell’impiego di fitofarmaci.
Le macchine baulatrici, seguite dalle pacciamatrici, sono adatte alla coltura dell’ananas e trattengono l’umidità del suolo con un doppio vantaggio: evitando l’eccessiva evaporazione, impediscono alle infestanti di andare a disturbare la coltura che si vuole poi raccogliere.
Una tecnologia particolarmente indicata in queste aree è la lavorazione su sodo, ovvero senza bisogno di fare alcuna lavorazione preliminare del terreno.
Per il pomodoro, che è in cima agli ortaggi per la gran quantità prodotta ed esportata, ci sono le trapiantatrici. Sono macchine cosiddette agevolatrici; ovvero che non escludono la presenza di un operatore, al quale però viene assegnato un compito di controllo del tutto diverso da quello manuale che avrebbe invece un impatto pesante sulla salute.
Ma se il problema di fondo rimane quello della scarsità d’acqua. Che risposte può dare nell’immediato l’industria della meccanizzazione?
«Quando si parla di irrigazione, il parametro principale è l’efficienza. Per esempio, con la sommersione l’efficienza è bassissima e arriva a un quarto tra quello che prelevo e quello che arriva alla pianta. I costruttori stanno lavorando per aumentare l’efficienza di distribuzione riducendo lo sforzo del riavvolgimento della condotta. Abbiamo una macchina chiamata pivot sulla quale sono stati introdotti dei sistemi detti lepa (low energy precision application) che vengono calati a terra per raggiungere la coltura in un punto più vicino e ridurre, così, l’evaporazione e la dispersione».
Anche nel caso dell’irrigazione, e per tutte le tecnologie prese in considerazione, va comunque considerato l’utilizzo del digitale in agricoltura che, è stato ribadito nel corso del convegno, “non è da lasciare a un domani ipotetico, ma da usare oggi perché non si può irrigare in modo ottimizzato se non si tiene conto della situazione puntuale del campo”. E questo si può fare solo con le informazioni che si ottengono con i sensori, ovvero con il digitale.
L’eccellenza dei produttori italiani, più volte richiamata durante gli interventi, si manifesta al meglio nelle macchine da raccolta. A titolo di esempio, è stato mostrato un ombrello intercettatore intero. Si tratta di uno scuotitore automatizzato per gli ulivi, con il quale non serve stendere la classica rete a terra.
Per i frutteti, con alberi di mango, avocado e simili, ci sono le cosiddette agevolatrici: piattaforme che si sviluppano in altezza e permettono di avvicinarsi alla chioma della pianta lavorando in sicurezza e, contemporaneamente, avanzando.
Soluzioni innovative, infine, anche per il cotone. Con due tipi di macchine: la stripper, che lascia alla pianta il solo scheletro, e la picker, che raccoglie solo la parte matura del cotone, dalle capsule aperte.
Sono solo alcuni degli esempi di come l’industria italiana risulti particolarmente in sintonia con le esigenze di questi Paesi.
Già oggi l’industria italiana soddisfa una quota significativa del fabbisogno di macchinari nella regione: nel solo 2022 il made in Italy ha coperto il 10% della domanda di tecnologie in Egitto, il 27,5% in Tunisia e il 26% in Marocco. «La partnership tra i Paesi del nord e del sud del Mediterraneo è uno degli elementi chiave per liberarne il potenziale produttivo – ha concluso Gianfranco Belgrano – e sui processi di meccanizzazione l’Italia ha tanto da offrire grazie a un’industria che si caratterizza per gli elevati standard internazionali».