
Dal petrolio di origine fossile ai biocombustibili di terza generazione
Negli ultimi decenni sono state messe a punto soluzioni diverse, ma ugualmente performanti, di carburanti alternativi al petrolio di origine fossile. I combustibili di terza generazione rappresentano oggi una promettente via per la sostenibilità
L'introduzione delle macchine dotate di motori endotermici alimentati con combustibili derivati dal petrolio ha rivoluzionato l’agricoltura, sostituendo progressivamente il lavoro manuale e la trazione animale. Più in dettaglio, il gasolio e in misura molto minore la benzina, sono i derivati che rappresentano ancora oggi le principali fonti energetiche per le attività agricole. Tuttavia, lo sfruttamento intensivo di combustibili di origine fossile comporta problemi ambientali rilevanti, tra cui massicce emissioni di gas serra, inquinamento atmosferico e dipendenza dalle risorse non rinnovabili. Negli ultimi anni, l’agricoltura sta cercando alternative maggiormente sostenibili. Per ridurre l’impatto ambientale senza compromettere la produttività, sono stati messi a punto mezzi alimentati con combustibili prodotti a partire da fonti rinnovabili, oppure che fanno uso di energia elettrica, in parte o in toto.
Biocombustibili di prima generazione. Si tratta di prodotti ottenuti da colture tipicamente agricole, come mais, canna da zucchero, colza, soia e girasole. Quelli più popolari sono l’etanolo, prodotto dalla fermentazione di zuccheri contenuti ad esempio nel mais e nella canna da zucchero, che può essere miscelato con la benzina per alimentare motori endotermici a ciclo Otto, e il biodiesel FAME (Fatty Acid Methyl Ester), ricavato dagli oli vegetali di colza, soia o girasole tramite transesterificazione, adatto per motori a ciclo Diesel. Pur riducendo le emissioni nette di gas serra rispetto a quelli fossili, questi combustibili presentano alcune problematiche: la loro produzione richiede grandi estensioni di terreno agricolo, che possono entrare in competizione con le colture a destinazione alimentare, e quindi con il cosiddetto “diritto al cibo”, sollevando perplessità etiche. Inoltre, la coltivazione intensiva di queste specie può impoverire il suolo, aumentare l’erosione e richiedere un impiego elevato di fertilizzanti e prodotti fitosanitari, con impatti ambientali negativi. Nonostante questi limiti, i biocombustibili di prima generazione hanno rappresentato il primo passo verso una produzione energetica più sostenibile, facendo da apripista a soluzioni più avanzate, come i biocombustibili di seconda generazione, ricavati da scarti agricoli e residui lignocellulosici.
Biocombustibili di seconda generazione. Sono ricavati da sottoprodotti agricoli, residui lignocellulosici delle colture (come paglia, potature e cippato di legno) o da rifiuti organici, evitando quindi l’uso diretto di colture normalmente destinate a fini alimentari. Tra i principali sono compresi l’etanolo ottenuto dalla fermentazione della cellulosa presente nella paglia e nel materiale vegetale, e il biodiesel prodotto da oli esausti (HVO, Hydrotreated Vegetable Oil). Rappresentano senza dubbio un’alternativa maggiormente sostenibile, perché annullano (o quantomeno riducono) la competizione con il cibo e sfruttano utilmente materiali che altrimenti dovrebbero essere smaltiti, magari con modalità ad elevato impatto ambientale. La produzione dei biocombustibili di seconda generazione comporta però sfide tecnologiche e gestionali. La trasformazione della cellulosa in zuccheri fermentabili richiede processi più complessi rispetto alla lavorazione di zuccheri o di oli di origine vegetale, mentre la raccolta e la gestione dei residui agricoli devono essere pianificate attentamente per evitare la riduzione della fertilità del suolo. In tale contesto, così come in quello relativo ai biocombustibili di prima generazione, la meccanizzazione delle filiere e lo sviluppo di tecnologie agricole sempre più avanzate possono contribuire in modo decisivo all’ottimizzazione dei processi produttivi per i biocarburanti. L’impiego di macchinari di nuova generazione, ad esempio, risulta essere di primaria importanza per il trattamento, la lavorazione e il trasporto delle biomasse agricole e forestali, mentre l’utilizzo di impianti all’avanguardia svolge un ruolo decisivo per garantire la sostenibilità ambientale dell’intera filiera.
Biocombustibili di terza generazione. Costituiscono attualmente la prospettiva più avanzata nel settore della bioenergia. A differenza delle prime due generazioni, questi nuovi combustibili si avvalgono di microalghe e cianobatteri, organismi fotosintetici caratterizzati da una crescita rapida, un elevato contenuto di lipidi e carboidrati e con ottima capacità di proliferare in substrati di ambienti marginali. Questo approccio consente quindi di evitare la competizione con le attività agricole destinate a scopi alimentari, aprendo la strada a filiere energetiche integrate, altamente sostenibili. La biomassa algale può essere trasformata in una gamma diversificata di combustibili. I lipidi accumulati nelle microalghe costituiscono la materia prima per la produzione di biodiesel, ottenuto tramite processi di estrazione ed esterificazione. Le frazioni glucidiche e proteiche, invece, sono valorizzabili attraverso fermentazione microbica per la produzione di bioetanolo e biobutanolo; quest’ultimo presenta proprietà chimico-fisiche particolarmente interessanti, come visto, per l’impiego in miscela con la benzina. Le componenti residue della biomassa possono alimentare processi di digestione anaerobica per la produzione di biogas a base di metano e idrogeno, mentre alcune specie di alghe verdi offrono la possibilità di generare bio-idrogeno in condizioni anaerobiche controllate, un vettore energetico di grande interesse per la sua produzione a ridotto impatto ambientale.
I vantaggi dello sfruttamento delle alghe come fonte bioenergetica sono molteplici. La produttività per unità di superficie può superare anche di 10 volte quella delle colture oleaginose terrestri, riducendo drasticamente il fabbisogno di suolo, mentre la capacità di crescita in acqua salata o reflua riduce la pressione sulle risorse idriche dolci. Inoltre, lo sfruttamento della CO2 di origine industriale come fonte di carbonio consente di integrare la produzione di biocombustibili con strategie di mitigazione delle emissioni climalteranti. Infine, la possibilità di ottenere più prodotti energetici a partire dalla medesima biomassa rende la filiera algale particolarmente flessibile ed efficiente sotto il profilo energetico.
Nonostante tali promettenti potenzialità, le barriere tecnologiche rimangono al momento rilevanti. Anche la fase di raccolta ed estrazione dei lipidi costituisce un passaggio critico, sia in termini di efficienza sia di sostenibilità economica ed energetica. Le prospettive di sviluppo sono condizionate dal miglioramento genetico dei ceppi algali, dalla progettazione di sistemi di coltivazione ibridi in grado di bilanciare costi e rese, e dall’integrazione della produzione algale con processi industriali esistenti, come il trattamento delle acque reflue o la cattura della CO2 da impianti energetici.
Biocombustibili da FORSU
La FORSU (Frazione Organica dei Rifiuti Solidi Urbani) è quella parte dei rifiuti domestici costituita da materiali organici biodegradabili, come avanzi di cibo, scarti di frutta e verdura e altri residui di origine vegetale. La loro trasformazione in biocombustibili, e quindi in energia attraverso la combustione, rappresenta un’importante opzione per un’effettiva sostenibilità. I processi che vengono applicati riguardano la digestione anaerobica per produrre biogas (o, meglio ancora, biometano), e fasi di estrazione e successiva transesterificazione (oppure idrogenazione) degli oli per ottenere biodiesel. Tale soluzione riduce la quantità di rifiuti destinati alla discarica, abbassa le emissioni di gas serra e limita la competizione con le colture agricole. Tuttavia, la gestione della FORSU richiede impianti adeguati, attenti e assidui controlli sulla qualità della biomassa conferita e una logistica efficiente delle fasi di raccolta e trattamento.
Modalità di coltivazione delle alghe
Sistemi aperti (open ponds): vasche o lagune poco profonde, a basso costo e di facile gestione. Consentono una produzione su larga scala, ma presentano basse rese e alta suscettibilità a contaminazioni e variazioni ambientali; sistemi chiusi (fotobioreattori, PBR): reattori trasparenti (tubolari, a pannello, a colonna) con controllo ottimizzato di luce, CO₂ e nutrienti. Garantendo elevata densità cellulare e riduzione delle contaminazioni, sono adatti per microalghe ad alto contenuto lipidico, ma comportano alti costi di investimento e gestione; macroalghe (maricoltura e vasche costiere): le alghe sono coltivate in mare aperto su corde/reti o in vasche riempite con acqua marina. Producono elevate quantità di biomassa ricca di carboidrati, utile per bioetanolo e biogas. Le limitazioni principali riguardano la stagionalità e la vulnerabilità alle condizioni meteo-marine; sistemi ibridi: per bilanciare produttività e sostenibilità economica, combinano l’adozione dei fotobioreattori, che evidenziano una fase iniziale del processo ad elevata efficienza, con gli stagni aperti, che rappresentano una fase finale a basso costo.
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